[bglug] [OT] La ricetta pubblica della Cola, arriva il copyleft nell´alimentazione

Sashiro sashiro@despammed.com
Mer 23 Giu 2004 19:19:20 CEST



L'AVANZATA DEL COPYLEFT


L'open source è una filosofia: e da oggi si applica anche ai prodotti di
consumo, a cominciare dalle Cole.


Se negli ultimi mesi siete stati a una fiera informatica forse l'avete
vista: una lattina color argento, con il logo di una linguetta a strappo e a
fianco la scritta "opencola". Dentro c'è una bevanda frizzante che somiglia
molto alla Coca-Cola e alla Pepsi. Ma sulla lattina c'è scritto qualcosa che
rende questa bevanda diversa: "Controllatene l'origine su opencola.com".
Andate alla pagina web indicata e vedrete qualcosa che non c'è sul sito
della Coca-Cola o della Pepsi: la ricetta della cola. Per la prima volta
nella storia potete realizzare l'originale a casa vostra. OpenCola è il
primo prodotto di consumo open source (sorgente aperta). Definendolo open
source il suo fabbricante sta dicendo che le istruzioni per realizzarlo sono
aperte a tutti. Chiunque può produrre la bevanda, modificarne e migliorarne
la ricetta, a condizione che la nuova formula rimanga di dominio pubblico. È
un modo piuttosto insolito di fare affari: la Coca-Cola non dà via i suoi
preziosi segreti commerciali. Ma è proprio questo il punto. OpenCola lancia
un segnale importante: una battaglia che da tempo oppone due diverse
filosofie di sviluppo dei programmi informatici si è estesa al resto del
mondo. Quello che è cominciato come un dibattito tecnico sul modo migliore
di correggere gli errori dei software sta diventando un dibattito politico
sulla proprietà della conoscenza e su come essa è usata: da un lato c'è chi
crede nella libera circolazione delle idee, dall'altro chi preferisce
definirle "proprietà intellettuale". Nessuno sa come andrà a finire. Ma in
un mondo in cui cresce l'opposizione al potere delle grandi aziende, ai
diritti restrittivi sulla proprietà intellettuale e alla globalizzazione,
l'open source sta emergendo come una possibile alternativa, un mezzo per
contrattaccare. E in questo esatto momento voi state contribuendo a
verificarne la validità.


Le origini
Il movimento dell'open source è cominciato nel 1984 quando l'informatico
Richard Stallman lasciò il suo lavoro al Massachusetts Institute of
Technology
(Mit) e fondò la Free Software Foundation. L'obiettivo era creare software
di alta qualità che fossero aperti a tutti. Stallman ce l'aveva con le
aziende che proteggono i loro programmi con brevetti e copyright e ne
tengono segreto il codice sorgente (il programma originale, scritto in un
linguaggio informatico come il C++). Stallman considerava questa pratica
dannosa: il risultato erano programmi di cattiva qualità, pieni di errori e,
peggio ancora, soffocava la libera circolazione delle idee. Stallman era
preoccupato del fatto che, se gli informatici non potevano più imparare dai
reciproci codici, l'arte della programmazione sarebbe decaduta (New
Scientist, 12 dicembre 1998, p. 42).


La mossa di Stallman ebbe vasta eco nella comunità informatica e ora ci sono
migliaia di progetti simili. La stella del movimento è Linux, un sistema
operativo creato all'inizio degli anni Novanta dallo studente finlandese
Linus Torvalds e oggi installato su circa diciotto milioni di computer in
tutto il mondo. Quel che distingue i programmi open source dal software
commerciale è il fatto che sono liberi, sia in senso politico sia in senso
economico. Se volete usare un prodotto come Windows Xp o Mac Os X dovete
pagare un compenso e accettare di rispettare una licenza che vi vieta di
modificare o condividere il software. Se invece volete usare Linux o un
altro pacchetto di programmi open source potete farlo senza pagare un
centesimo, anche se diverse aziende vi venderanno il software insieme a dei
servizi di assistenza. Potete anche modificare il software a piacimento,
copiarlo e darlo ad altri. Questa libertà è un invito - alcuni dicono una
sfida - agli utenti ad apportare miglioramenti. Così migliaia di persone
lavorano costantemente su Linux, aggiungendo nuove caratteristiche e
individuandone gli errori. I loro contributi sono esaminati da un gruppo di
esperti e i migliori sono aggiunti al sistema operativo. Per i
programmatori, la fama dovuta a un contributo riuscito è la migliore
ricompensa. Il risultato è un sistema stabile e potente che si adatta
rapidamente al cambiamento tecnologico. Linux ha un tale successo che
perfino l'Ibm lo installa sui computer che vende.


I programmi open source sono coperti da uno speciale strumento legale che si
chiama General Public License (Gpl). Anziché porre limiti al modo in cui il
software può essere usato, come prevede la licenza informatica standard, la
Gpl - nota anche come copyleft - garantisce quanta più libertà possibile
(vedi www.fsf.org/licenses/gpl.html). I programmi coperti da Gpl - o
un'analoga licenza copyleft - possono essere copiati, modificati e
distribuiti da tutti, a patto che siano redistribuiti sotto un regime di
copyleft. Questa restrizione è cruciale, perché impedisce che il materiale
diventi un prodotto proprietario. Rende inoltre il software open source
diverso dai programmi che sono semplicemente gratuiti. Nelle parole della
Free Software Foundation, la Gpl "rende il software libero e garantisce che
resti libero". L'open source si è dimostrato un ottimo modo di scrivere
programmi informatici. Ma esprime anche una posizione politica che mette al
centro la libertà di espressione, diffida del potere delle grandi aziende e
non vede di buon occhio la proprietà privata della conoscenza. Secondo Eric
Raymond, il guru dell'open source, è "una visione libertaria del giusto
rapporto che ci dovrebbe essere tra gli individui e le istituzioni". Ma le
aziende informatiche non sono le sole a sigillare la conoscenza e a renderla
disponibile solo a chi è pronto a pagare. Ogni volta che acquistate un cd,
un libro o una lattina di Coca-Cola pagate per avere accesso alla proprietà
intellettuale di qualcun altro. Con i vostri soldi acquistate il diritto ad
ascoltare, leggere o consumare i contenuti, ma non a rimaneggiarli o a farne
delle copie e redistribuirle. Non sorprende, allora, che le persone attive
nel movimento dell'open source si siano chieste se i loro metodi non
funzionassero anche con altri prodotti. Finora nessuno ne è certo, ma ci
stanno provando in molti. Prendete OpenCola. Anche se inizialmente era solo
uno strumento promozionale per spiegare i programmi open source, la bevanda
ora vive di vita propria. L'omonima società di Toronto è diventata più nota
per questa bevanda che per il software che voleva promuovere. Laird Brown,
capo stratega dell'azienda, ne attribuisce il successo a una diffusa
sfiducia verso le grandi multinazionali e "la natura proprietaria di quasi
tutto ciò che ci circonda". Un sito web che distribuisce il prodotto ha
venduto 150mila lattine. Negli Stati Uniti gli studenti politicizzati hanno
cominciato a modificare la ricetta per le loro feste.



L'industria discografica
OpenCola è un caso fortunato e non pone alcuna reale minaccia alla Coca o
alla Pepsi, ma altrove qualcuno sta usando il modello dell'open source per
sfidare gli interessi consolidati. Uno dei bersagli è l'industria musicale.
In prima linea nell'attacco c'è l'Electronic Frontier Foundation (Eff), un
gruppo di San Francisco creato per difendere le libertà civili nell'era
della società digitale. Nell'aprile del 2001 l' Eff ha pubblicato un modello
di copyleft chiamato Open Audio License (Oal). L'idea è permettere ai
musicisti di sfruttare le proprietà della musica digitale - facilità di
duplicazione e distribuzione - anziché combatterle. I musicisti che
distribuiscono le loro canzoni sotto un regime di Oal consentono che il
materiale sia copiato, eseguito, rimaneggiato e ridistribuito secondo la
stessa licenza. In questo modo possono fare affidamento sulla "distribuzione
virale" per essere ascoltati. "Se ci sono persone a cui queste canzoni
piacciono, sosterranno l'artista per assicurare che continui a produrre
musica", dice Robin Gross dell'Eff.

È ancora presto per giudicare se l'Oal catturerà l'immaginazione così come
ha fatto l'OpenCola. Ma è già chiaro che parte della forza dei programmi
open source non può essere applicata alla musica. Nell'informatica l'open
source permette agli utenti di migliorare i programmi eliminando gli errori
e le parti del codice inefficienti, ma non è chiaro come questo possa
avvenire con la musica. In realtà le canzoni non sono "open source": i file
disponibili su www.openmusicregistry.org, il sito musicale dell'Oal, finora
sono tutti in formato Mp3 e Ogg-Vorbises che permettono di ascoltare la
musica ma non di modificarla. Perché un artista di successo dovrebbe mettere
in circolazione le sue canzoni sotto un regime di Oal? Molti gruppi hanno
protestato per come gli utenti di Napster distribuissero le canzoni a loro
insaputa; perché adesso dovrebbero consentire la distribuzione senza limiti
o permettere a degli estranei di armeggiare con la loro musica? Certo è
improbabile che abbiate mai sentito parlare di qualcuno dei venti gruppi che
hanno reso disponibile le loro canzoni sul sito web dell'Oal. È difficile
sottrarsi alla conclusione che l'Open Audio è solo un'opportunità per
artisti sconosciuti di farsi conoscere.


L'enciclopedia aperta
I problemi con l'open music non hanno comunque scoraggiato chi vuole provare
i metodi dell'open source in altri settori. Le enciclopedie, per esempio,
sembrano un buon terreno. Come i software, sono modulari e sono basate sulla
collaborazione, hanno bisogno di aggiornamenti regolari e migliorano con il
controllo di esperti. Ma il primo tentativo, un repertorio online chiamato
Nupedia, non ha avuto grande successo. Dopo due anni sono state completate
solo venticinque delle 60mila voci che aveva previsto. "Con questo ritmo non
sarà mai una grande enciclopedia", ammette il caporedattore Larry Sanger. Il
problema è che gli esperti che Sanger vuole reclutare perché scrivano gli
articoli hanno scarsi incentivi a partecipare: non guadagnano punti
accademici come i programmatori che si dedicano ad aggiornare Linux, e
d'altra parte Nupedia non può pagarli. È un problema che riguarda la maggior
parte dei prodotti open source: come invogliare la gente a contribuire?
Sanger sta studiando il modo di ricavare dei soldi da Nupedia preservandone
la libertà dei contenuti. I banner pubblicitari sono una possibilità, ma la
sua speranza è che i professori universitari comincino a citare gli articoli
di Nupedia in modo che gli autori acquisiscano crediti accademici. C'è
un'altra possibilità: confidare nella buona volontà collettiva della
comunità dell'open source. Un anno fa, frustrato dai lentissimi progressi di
Nupedia, Sanger ha lanciato un'altra enciclopedia: Wikipedia, dal nome del
programma open source WikiWiki che permette a chiunque di modificare le
pagine sul web. È un progetto molto meno formale di Nupedia: chiunque può
scrivere o modificare un articolo su qualsiasi argomento, il che
probabilmente spiega le voci sulla birra e su Star Trek. Ma anche il suo
successo. Wikipedia contiene già 19mila articoli e ogni mese si arricchisce
di migliaia di nuovi contributi. "Alla gente piace l'idea che la conoscenza
possa e debba essere distribuita e sviluppata liberamente". Sanger è
convinto che con il tempo migliaia di dilettanti correggeranno gli eventuali
errori e colmeranno ogni lacuna, finché Wikipedia non diventerà
un'enciclopedia autorevole con centinaia di migliaia di voci.


In aiuto degli avvocati
Un altro esperimento interessante è il progetto OpenLaw del Berkman Center
for Internet and Society della Harvard Law School. Gli avvocati del Berkman
sono specializzati in ciberspazio, copyright, crittografia e così via, e il
centro ha forti legami con l'Eff e la comunità dei programmi open source.
Nel 1998 Lawrence Lessig, oggi docente alla Stanford Law School, ricevette
dall'editore online Eldritch Press la richiesta di intentare una causa
contro la legge statunitense sul copyright. La Eldritch prende dei libri il
cui copyright è scaduto e li pubblica sul web, ma la nuova legge che estende
il copyright da 50 a 70 anni dopo la morte dell'autore limitava la sua fonte
di approvvigionamento di nuovo materiale. Lessig invitò gli studenti di
giurisprudenza di Harvard e di altre università a contribuire a definire gli
argomenti legali per contestare la nuova legge attraverso un forum online,
che poi è diventato OpenLaw. Normalmente gli studi legali scrivono gli
argomenti per il dibattimento nello stesso modo in cui le aziende
informatiche scrivono il codice dei loro programmi. Gli avvocati discutono
un caso a porte chiuse e, anche se il prodotto finale viene reso pubblico in
tribunale, le discussioni, o il "codice sorgente", che hanno portato alla
sua realizzazione restano segrete. OpenLaw costruisce invece i suoi
argomenti in pubblico e li mette in circolazione coperti da copyleft.
"Abbiamo usato deliberatamente come modello il software libero", spiega
Wendy Selzer, responsabile del progetto OpenLaw dopo il passaggio di Lessig
a Stanford. Oggi lavorano al caso Eldritch una cinquantina di esperti e
OpenLaw si occupa anche di altre cause. "Ci sono più o meno gli stessi
vantaggi dei programmi open source", dice Selzer. "Centinaia di persone
analizzano il 'codice' alla ricerca di errori e suggeriscono come
correggerlo. Intanto qualcun altro prende una parte poco sviluppata
dell'argomento, ci lavora sopra e poi la reinserisce". Armata degli
argomenti costruiti in questo modo, OpenLaw ha fatto avanzare il caso
Eldritch all'inizio giudicato invincibile e adesso sta cercando di ottenere
un dibattimento di fronte alla Corte suprema.


Ma ci sono degli inconvenienti. Gli argomenti sono di dominio pubblico fin
dall'inizio, perciò OpenLaw in tribunale non può contare sulla sorpresa. Per
lo stesso motivo non può occuparsi di cause dove la discrezione è
importante. Ma se la questione è di interesse pubblico il metodo open source
ha grandi vantaggi. I gruppi per i diritti dei cittadini, per esempio, hanno
preso alcuni degli argomenti legali di OpenLaw e li hanno usati altrove. "I
cittadini li usano nelle lettere al Congresso o li mettono sui volantini",
dice Selzer.

Il movimento per i "contenuti aperti" è ancora all'inizio ed è difficile
prevedere fin dove arriverà. "Non sono sicuro che esistano altre aree dove
l'open source possa funzionare", dice Sanger. "Se ci fossero le avremmo già
esplorate". Anche Eric Raymond ha espresso dei dubbi. Nel saggio del 1997
The Cathedral and the Bazaar (La cattedrale e il bazar) ha messo in guardia
dall'applicare i metodi open source ad altri prodotti. "La musica e la
maggior parte dei libri non sono come i programmi informatici, perché in
generale non hanno bisogno di essere corretti o aggiornati". Senza questo
bisogno i prodotti guadagnano poco dall'esame e dal rimaneggiamento di altre
persone, perciò un sistema open source dà pochi benefici. "Non voglio
indebolire l'argomento vincente dei programmi open source legandolo a un
possibile perdente", ha scritto Raymond. Oggi, però, la sua posizione è
leggermente cambiata. "Sono più disposto ad ammettere che un giorno potrei
parlare anche di aree distinte dal software. Ma non ora. Il momento propizio
sarà quando i programmi open source avranno vinto la battaglia delle idee.
Raymond si aspetta che succederà nei prossimi anni. E così l'esperimento
prosegue. Il contributo di New Scientist è pubblicare questo articolo in
regime di copyleft. Significa che potete copiarlo, redistribuirlo,
ristamparlo per intero o in parte, e in generale farne quello che vi pare, a
patto che anche voi rendiate pubblica la vostra versione con un copyleft e
rispettiate gli altri termini della licenza. Vi chiediamo anche di
informarci di qualsiasi uso facciate di questo articolo inviando un'email a
copyleft@newscientist.com.

Un motivo di questa decisione è che così facendo possiamo stampare la
ricetta dell'OpenCola senza violarne il copyleft. Se non altro questo
dimostra la capacità del copyleft di diffondersi. Ma c'è anche un altro
motivo: vedere quel che succede. Che io sappia questo è il primo articolo di
giornale pubblicato con un copyleft. Chissà quale sarà il risultato. Forse
l'articolo scomparirà senza aver lasciato alcuna traccia. Forse sarà
fotocopiato, ridistribuito, rieditato, riscritto, copiato su pagine web,
volantini e articoli in tutto il mondo. Non lo so, ma non è questo il punto:
la questione non è più di mia competenza. La decisione adesso sta a tutti
noi. Il "codice sorgente" di questo articolo e i dettagli sulle condizioni
del copyleft sono alla pagina www.newscientist.com/hottopics/copyleft

di Graham Lawton
(New Scientist, Gran Bretagna)


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