[FoLUG]Reymond e la noosfera.
Marco Valli
folug@lists.linux.it
Tue, 15 Jan 2002 16:10:10 +0100
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Alle 00:13, giovedì 10 gennaio 2002, in merito a [FoLUG]Reymond e la
noosfera., Alessandro Ronchi scrive:
> Chi di voi ha letto questo saggio?
Io no...
> In particolare, vorrei discutere con voi dei tabù dello sviluppo
> opensource.
> Chi di voi non si incavolerebbe se qualcuno prendesse i vostri
> sorgenti ed eliminasse il vostro nome, sostituendolo con il suo,
> senza nemmeno un ringraziamento?
Amplio oltremodo il discorso: questo è un bell'articolo di Franco
Carlini (divulgatore scientifico, esperto di informatica, scrive su La
Stampa, il Corsera e il Manifesto, ma non solo); vale la pena d'essere
letto:
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Il salutare altruismo nel software
La "Tragedia dei Commons", ovvero la distruzione di risorse naturali
senza proprietari (quindi collettive, del genere umano) per eccesso di
egoismo individuale. Il software Open source - collaborativo e
"comunitario" - mostra una via per evitare che quel destino si ripeta
FRANCO CARLINI
Nel 1625 il filosofo olandese Hugo Grotius scriveva: "l'estensione
dell'oceano è talmente grande che esso soddisfa ogni possibile uso da
parte delle genti per trarne acqua, per pescare, per navigare". Allora
sembrava sensato, ma le generazioni successive si sarebbero incaricate
di smentirlo concretamente. Oggi la pratica scomparsa dei grandi banchi
di pesci che popolavano l'oceano Atlantico è forse l'esempio più noto
di "tragedia dei beni comuni": quando un bene è di tutti e di nessuno -
come nel caso dei pesci del mare, dell'acqua o della legna dei boschi -
può scattare il lato peggiore e meno previdente dell' Homo oeconomicus
: ogni individuo cerca di massimizzare il proprio interesse personale
e, per effetto della somma di migliaia o di milioni di comportamenti
egoistici, quello che era un bene di tutti viene eroso. Alla fine non
ce n'è più per nessuno. Altro che il macellaio di Adam Smith, che
facendo il suo interesse genera anche l'interesse generale.
"The Tragedy of Commons" è il titolo di un famoso saggio pubblicato
dallo studioso Garret Hardin nel lontano 1968 sulla rivista "Science".
Stimolò molte ricerche e vasto interesse perché apparve per così dire
geniale nel suo pessimismo: il comportamento "razionale" dei singoli
(cerco di avere il massimo di benefici per me stesso) porta a un
risultato complessivamente disastroso, una tragedia appunto.
Apparentemente, spiegava Hardin, il vantaggio individuale
nell'aggiungere un'altra pecora al proprio gregge che pascola su
terreni comuni è alto, perché il danno eventuale, legato a un
deterioramento del terreno per eccesso di pascolo, viene ripartito tra
tutti gli allevatori, mentre della singola pecora in più beneficia solo
il singolo. E' lo stesso meccanismo della cena tra amici dove il conto
viene suddiviso in parti uguali: ognuno è tentato di ordinare aragosta,
anche se molto costosa, perché il prezzo elevato verrà distribuito tra
molte teste.
Ma se tutti aggiungono pecore, o se tutti ordinano aragosta, il sistema
salta: non c'è più erba per nessuno (o il conto del ristorante diventa
stratosferico, al di là dei portafogli dei singoli). Da sinistra questo
ragionamento è stato utilizzato come un buon supporto teorico per
politiche di tipo statalista e interventista. A sua volta Hardin, che è
professore di ecologia umana all'università di California a Santa
Barbara, nel 1999 riprendeva il filo del ragionamento, affermando che
non c'erano soluzioni intermedie: o il socialismo o il pieno
dispiegarsi della libera impresa. In ogni caso la spontaneità da sola
non era in grado di garantire una gestione sostenibile e prolungata nel
tempo di beni via via più scarsi perché più richiesti.
Le cose in realtà sono più complicate e tra i due estremi esistono
molte varianti intermedie, sia dal punto di vista della proprietà che
da quello dei diritti di accesso. E nei trent'anni che sono passati dal
saggio di Hardin, per esempio, è cresciuto l'interesse di economisti,
sociologi e antropologi per i fenomeni dell'autogestione locale. Gli
abitanti del nostro Appennino, che per secoli hanno gestito le
"comunaglie" (il nome italiano dei commons) secondo forme originali di
ripartizione degli oneri e dei benefici sono uno dei tanti esempi. Un
bosco da legna può essere un bene prezioso per una comunità montana, ma
solo a patto che nessuno tagli più del dovuto e del suo bisogno - e
naturalmente ciò è tanto più vero se la popolazione è stabile e non ci
sono nuovi entranti a premere e a stressare la risorsa. Lo stesso vale
per le regole di pesca in certi fiumi canadesi, dove le popolazioni
locali hanno sempre saputo preservare la risorsa per le generazioni
future grazie a un sistema basato sui saggi del villaggio, ultimi
arbitri del conflitto. Non è nemmeno detto che siano sempre necessarie
delle forme particolarmente rigide e coercitive di controllo e
punizione: nei casi migliori non c'è bisogno di leggi speciali, né di
poliziotti; è sufficiente invece la riprovazione o l'approvazione
sociale che la comunità esercita nei confronti degli egoisti o dei
responsabili.
Altrettanto interessanti appaiono le ricerche condotte dagli
antropologi. La popolazione Aché del Paraguay dell'Est offre, per
esempio, un caso incredibile di altruismo e egualitarismo. Coloro che
l'hanno studiata hanno verificato che i tre quarti circa di ciò che un
singolo individuo mangia non provengono dall'interno del gruppo
familiare, ma da meccanismi sociali di distribuzione e di gratuità
sociale.
Da questo e da altri esempi Samuel Bowles e Herbert Gintis del Mit
traggono la conclusione ottimistica che "l'eguaglianza non è affatto
passata di moda". La vera natura della specie umana non sarebbe affatto
quella di economicus , ma quella di Homo reciprocans : collaborativo e
sociale. Se oggi welfare e programmi pubblici di assistenza non
sembrano particolarmente apprezzati dall'opinione pubblica ciò non
dipende dall'intrinseco egoismo dei cittadini benestanti, quanto dalla
scarsa fiducia e credibilità dei programmi stessi.
Christopher Boehm, primatologo, e Bruce Knauft, antropologo, vanno
ancora più in là: l'uomo si comporta così da almeno 100.000 anni: "gli
indizi dell'archeologia suggeriscono che almeno dal Paleolitico
superiore erano diffuse reti di protezione e di sostegno per il
trasferimento delle risorse" tra i membri di una stessa comunità. "La
forte internalizzazione di un'etica condivisa era per molti aspetti un
sine qua non delle culture di queste società". Va anche detto che solo
in parte la soluzione sta nella questione proprietaria: in molti dei
casi analizzati nell'ampia rassegna appena pubblicata da alcuni
studiosi dell'Università dell'Indiana a Bloomington risulta evidente
non soltanto che quasi sempre i metodi statalisti hanno fallito, ma che
altrettanti fallimenti sono imputabili alla proprietà individuale.
Un caso particolarmente clamoroso è quello della Mongolia: nelle zone a
gestione statale della vicina Cina e Siberia, il degrado ambientale è
ben evidente, mentre in quella parte della Mongolia dove ancora vivono
i meccanismi di gestione della pastorizia di tipo tribale, il
territorio è rimasto molto più protetto. Il fatto è che per tutelare un
bene comune occorre non soltanto sentirlo come proprio e poterne
usufruire in autogestione, ma anche conoscerlo intimamente. Nel Nepal
un generoso progetto di razionalizzazione dei canali di irrigazione si
è tradotto, a conti fatti, in una minore efficienza del sistema
agricolo. Paradossalmente le moderne canalizzazioni di cemento sono
risultate meno utili dei vecchi canali scavati nel fango dalle
popolazioni locali con grande fatica. Come mai? Probabilmente perché
c'era un sapere diffuso riguardo alla microgestione del territorio che
i moderni ingegneri non avevano nemmeno intuito. E c'erano meccanismi
di manutenzione del bene comune (i canali) che il nuovo sistema non ha
sostituito con nulla.
L'insieme di questi ragionamenti potrebbe suggerire - e di fatto
suggerisce ad alcuni - un orizzonte nostalgico comunitarista basato
sulle comunità locali, ma sarebbe ovviamente un'illusione retrograda.
Dal passato si deve imparare, ma l'esperienza insegna che non può
essere quasi mai riproposto come modello attuale e praticabile su vasta
scala. Oltre a tutto quando un common è a dimensione planetaria (come
lo strato di ozono) non esistono evidentemente soluzioni micro. Sono
necessarie istituzioni (comunità) a scala del pianeta. Dopo trent'anni
di ricerche sulla tragedia dei commons e di accresciuta sensibilità
ambientale, alcune cose sono più chiare e diversi strumenti sono
disponibili che prima non c'erano. E le tecnologie della comunicazione
permettono ad esempio un monitoraggio costante e un flusso quasi
istantaneo di informazioni su chi consuma che cosa e dove. Su chi abusa
e chi no, su chi coopera e chi al contrario privatizza egoisticamente.
La Tragedia dei Commons storicamente è stata evitata non già con leggi
scritte (che non c'erano), né con poliziotti o guardiaboschi, ma in
base alle regole non scritte di controllo sociale, spontaneamente
emerse dalla comunità: approfittare del bene comune fino a depauperarlo
era un fatto colpito da riprovazione sociale, che poteva anche portare
all'espulsione (o all'isolamento sociale) dell'autore. Viceversa,
spiegano gli antropologi, il sistema del dono nacque probabilmente come
un meccanismo di distribuzione egualitaria delle eccedenze in
situazioni di abbondanza, oppure (e viceversa), per ottimizzare l'uso
di risorse scarse. Su questo la discussione è aperta e lungi
dall'essere conclusa (un'ottima rassegna si trova nel recente libro di
Berra e Meo, " Informatica solidale" (Bollati Boringhieri, 2001).
Insomma, l'altruismo (o l'egoismo) e la cooperazione (o la diserzione)
possono essere studiati seriamente solo in un contesto di relazioni. Se
in una comunità la maggioranza delle persone è collaborativa, allora
l'essere altruisti verrà più facilmente sentito come un valore;
diversamente le persone si chiedono: "devo essere io l'unico fesso?".
Come sovente accade, si innescano dei cicli di esaltazione o di
depressione (dei feedback positivi o negativi). Praticare l'altruismo -
per esempio nella produzione e condivisione di software - è anche un
modo per incentivare l'altruismo degli altri: all'interno del gruppo
diventa un valore comune e una pratica diffusa. Viceversa una pratica
di egoismo spinge ognuno a accaparrare per sé e contemporaneamente a
deteriorare il patrimonio comune, sia consumandolo senza freno sia
privatizzandone delle quote. In tutto ciò ci sono ovviamente larghi
margini di ambiguità; il dono può diventare un obbligo, non imposto con
la forza delle leggi, ma dai meccanismi di pressione sociale. Ma nello
stesso tempo porta con sé un interesse, dato che si potrà usufruire di
un ambiente comune: tutti donano, mettono in comune e difendono un
patrimonio pubblico. Vista nel campo del software: non si diventa
finanziariamente ricchi vendendo software, ma si può godere di un
patrimonio di programmi utili senza spendere nulla.
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saluti a tutti
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(@_ Marco Valli - Linux User #195004
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