[LatinaLUG] Rodotà: I sette peccati capitali di Internet (e le sue virtù )

Roberto Polli roberto.polli@email.it
Mar 6 Mar 2007 16:56:13 CET


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I sette peccati capitali
di Internet (e le sue virtù)
di STEFANO RODOTA

Qual è il destino dei parlamenti nell'età dell'informazione e della 
comunicazione? Alcuni anni fa, quando cominciò il dibattito sulla 
democrazia elettronica, sembrava che le nuove tecnologie avrebbero 
portato ad una progressiva scomparsa della democrazia rappresentativa, 
sostituita da forme sempre più diffuse di democrazia diretta. Nel nuovo 
agorà elettronico i cittadini avrebbero potuto prendere sempre la 
parola e decidere su tutto.

La memoria dell'antica Atene e il modello dei town meetings del New 
England apparivano come la forma nuova della democrazia, con un 
intreccio tra antico e nuovo che avrebbe via via cancellato il ruolo 
dei parlamenti. Oggi queste ipotesi sono lontane, e la democrazia 
elettronica segue strade diverse da quelle di una brutale e ingannevole 
semplificazione dei sistemi politici. Ma questo non vuol dire che i 
parlamenti possano trascurare le grandi novità determinate dalle 
tecnologie dell'informazione e della comunicazione, che incidono 
profondamente sul loro ruolo e sul modo in cui si struttura il loro 
rapporto con la società. Non siamo di fronte a semplici strumenti 
tecnici, ma ad una forza potente, la tecnologia nel suo complesso, che 
sta trasformando in modo radicale le nostre società.

Stiamo passando, su scala mondiale, da un equilibrio tecnologico 
all'altro. Il primo, grande compito dei parlamenti, oggi, è dunque 
quello di cogliere questo momento, di compiere tempestivamente le 
scelte intelligenti necessarie perché l'insieme delle tecnologie si 
risolva in un rafforzamento complessivo della democrazia.

Sono divenute chiare alcune linee di analisi e di intervento, che 
possono essere così riassunte:
- evitare che le nuove tecnologie portino ad una concentrazione invece 
che ad una diffusione del potere sociale e politico;
- evitare che le nuove tecnologie si consolidino come la forma del 
populismo del nostro tempo, con un continuo scivolamento verso la 
democrazia plebiscitaria.

-evitare che ci si trovi sempre più di fronte a tecnologie del 
controllo invece che a tecnologie delle libertà;
- evitare che nuove disuguaglianze si aggiungano a quelle esistenti;
- evitare che il grande potenziale creativo delle nuove tecnologie 
porti non ad una diffusione della conoscenza, ma a forme insidiose di 
privatizzazione.

Pure l'età digitale, dunque, ha i suoi peccati, sette come vuole la 
tradizione, e che sono stati così enumerati: 1) diseguaglianza; 2) 
sfruttamento commerciale e abusi informativi; 3) rischi per la privacy; 
4) disintegrazione delle comunità; 5) plebisciti istantanei e 
dissoluzione della democrazia; 6) tirannia di chi controlla gli 
accessi; 7) perdita del valore del servizio pubblico e della 
responsabilità sociale. Non mancano, tuttavia, le virtù, prima tra 
tutte l'opportunità grandissima di dare voce a un numero sempre più 
largo di soggetti individuali e collettivi, di produrre e condividere 
la conoscenza, sì che ormai molti ritengono che la definizione che 
meglio descrive il nostro presente, e un futuro sempre più vicino, sia 
proprio quella di "società della conoscenza".

Al di là delle immagini e delle metafore, i parlamenti non sono 
chiamati a scegliere tra il bene e il male. Di fronte ad una realtà 
complessa, nella quale convivono società della conoscenza e società del 
rischio, i parlamenti non sono chiamati scegliere tra bene e male. 
Devono ribadire la loro storica e insostituibile funzione di custodi 
della libertà e dell'eguaglianza.
Non sono riferimenti retorici. La tecnologia è prodiga di promesse.

Alla democrazia offre strumenti per combattere l'efficienza declinante, 
e arriva fino a proporne una rigenerazione. Ma, se guardiamo al mondo 
reale, alle tendenze in atto, rischiamo di incontrare sempre più spesso 
un uso delle tecnologie che rende capillare e continuo il controllo dei 
cittadini. A queste tendenze bisogna reagire, non solo per sfuggire ad 
una sorta di schizofrenia istituzionale che spinge verso la costruzione 
di un mondo diviso tra le speranze di libertà e l'insidia della 
sorveglianza. E' necessario soprattutto considerare realisticamente le 
dinamiche sociali, a cominciare da quelle che rischiano di produrre 
nuove diseguaglianze.

Questo problema viene solitamente indicato con l'espressione digital 
divide, ed effettivamente l'uso delle tecnologie, di Internet in primo 
luogo, produce stratificazioni sociali, l'emergere di nuove categorie 
di haves e di have nots, di abbienti e non abbienti proprio per quanto 
riguarda la fondamentale risorsa dell'informazione. Ma le più 
attendibili ricerche sul digital divide mettono in evidenza che il 
divario tra paesi sviluppati e paesi meno sviluppati, per quanto 
riguarda l'accesso ad Internet, non può essere esaminato riferendosi 
prevalentemente alle differenze di reddito. Pur rimanendo 
profondissime, infatti, le distanze riguardanti Internet tendono a 
ridursi più rapidamente di quelle relative alla ricchezza.

Questo vuol dire che i fattori influenti non sono tanto quelli 
economici, quanto piuttosto quelli sociali e culturali.

Conoscenza è parola che sintetizza le possibilità di accedere alle 
fonti, di elaborare il materiale, raccolto, di diffondere liberamente 
le informazioni. Già nell'articolo 19 della Dichiarazione universale 
dei diritti dell'uomo delle Nazioni Unite si è affermato il diritto di 
ogni individuo alla libertà di opinione e di espressione "e quello di 
cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni 
mezzo e senza riguardo a frontiere". Oggi questo diritto è in pericolo 
per la pretesa di molti Stati di controllare Internet, per l'esercizio 
di veri poteri di censura, per le condanne di autori di quelle 
particolari comunicazioni in rete che sono i blog.

Questa situazione non può essere ignorata, soprattutto perché alcune 
grandi società - Microsoft, Google, Yahoo!, Vodafone - hanno annunciato 
per la fine dell'anno la pubblicazione di una "Carta" per tutelare la 
libertà di espressione su Internet. I parlamenti non possono accettare 
che la garanzia del free speech, che gli Stati Uniti vollero affidare 
al Primo Emendamento della loro Costituzione, divenga materia di cui si 
occupano solo i privati, che evidentemente offriranno solo le garanzie 
compatibili con i loro interessi.
Internet è il più grande spazio pubblico che l'umanità abbia 
conosciuto, dove si sta realizzando anche una grande redistribuzione di 
potere. Un luogo dove tutti possono prendere la parola, acquisire 
conoscenza, produrre idee e non solo informazioni, esercitare il 
diritto di critica, dialogare, partecipare alla vita comune, e 
costruire così un mondo diverso di cui tutti possano egualmente dirsi 
cittadini.

Ma tutto questo può diventare più difficile, per non dire impossibile, 
se la conoscenza viene chiusa in recinti proprietari senza considerare 
proprio la novità della situazione che abbiamo di fronte e che impone 
di guardare alla conoscenza come il più importante tra i beni comuni.

La questione dei beni comuni è essenziale. Parole nuove percorrono il 
mondo - open source, free software, no copyright - dando il senso di un 
cambiamento d'epoca. Oggi, infatti, il conflitto tra interessi 
proprietari e interessi collettivi non si svolge soltanto intorno a 
risorse scarse, in prospettiva sempre più drammaticamente scarse come 
l'acqua. Nella dimensione mondiale assistiamo ad una creazione 
incessante di nuovi beni, la conoscenza prima di tutto, rispetto ai 
quali la scarsità non è l'effetto di dati naturali, ma di politiche 
deliberate, di usi impropri del brevetto e del copyright, che stanno 
determinando un movimento di "chiusura" simile a quello che, in 
Inghilterra, portò alla recinzione delle terre comuni, prima 
liberamente accessibili. Questa scarsità artificiale, creata, rischia 
di privare milioni di persone di straordinarie possibilità di crescita 
individuale e collettiva, di partecipazione politica.

La sfida lanciata ai parlamenti non riguarda soltanto la necessità di 
trovare nuovi equilibri tra logica della proprietà e logica dei beni 
comuni. Investe lo stesso modo d'intendere la cittadinanza. La vera 
novità democratica delle tecnologie dell'informazione e della 
comunicazione, infatti, non consiste nel dare ai cittadini 
l'ingannevole illusione di partecipare alle grandi decisioni attraverso 
referendum elettronici. Consiste nel potere dato a ciascuno e a tutti 
di servirsi della straordinaria ricchezza di materiali messa a 
disposizione dalle tecnologie per elaborare proposte, controllare i 
modi in cui viene esercitato il potere, organizzarsi nella società. Con 
questo vasto mondo - in cui la democrazia si manifesta in maniera 
"diretta", ma senza sovrapporsi a quella "rappresentativa" - i 
Parlamenti devono trovare nuove forme di comunicazione, attraverso 
consultazioni anche informali, messa in rete di proposte sulle quali si 
sollecita il giudizio dei cittadini, procedure che consentano di far 
giungere in parlamento proposte elaborate da gruppi ai quali, poi, 
vengano riconosciute anche possibilità di intervento nel processo 
legislativo.

La rigida contrapposizione tra democrazia rappresentativa e democrazia 
diretta potrebbe così essere superata, e la stessa democrazia 
parlamentare riceverebbe nuova legittimazione dal suo presentarsi come 
interlocutore continuo della società.
In questa prospettiva, i parlamenti debbono soprattutto impedire che le 
esigenze di lotta a terrorismo e criminalità e le richieste del sistema 
economico portino alla nascita di una società della sorveglianza, della 
selezione e del controllo, alterando quel carattere democratico dei 
sistemi politici di cui proprio i parlamenti sono i primi ed essenziali 
garanti.
Proprio le tecnologie, con la loro apparente neutralità, hanno 
rafforzato le spinte verso la creazione di gigantesche raccolte di dati 
personali.

La politica sta delegando alla tecnica la gestione dei più diversi 
aspetti della società, dimenticando, ad esempio, un principio 
chiaramente indicato nell'articolo 8 della Convenzione europea dei 
diritti dell'uomo. In questa norma si ammettono limitazioni dei diritti 
per diverse finalità, compresa la sicurezza nazionale, a condizione 
però che si tratti di misure compatibili con le caratteristiche di una 
società democratica. I parlamenti devono esercitare con il massimo 
rigore questa funzione di controllo, senza delegarla ad altri organi 
dello Stato, fossero pure le corti costituzionali. Solo così possono 
evitare la trasformazione dei cittadini in sospetti, ed impedire che, 
con l'argomento della difesa della democrazia, sia proprio la 
democrazia ad essere perduta.

Questo è il discorso
che Stefano Rodotà
ha tenuto a Montecitorio
per l'apertura della
Conferenza internazionale
dell'Unione interparlamentare

 

-- 
Roberto Polli

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