[ImoLUG] il software libero ha qualcosa da dire sulla questione morale? un pensiero come auguri

antonino antonino.attanasio@tin.it
Dom 21 Dic 2008 17:21:48 CET


Incollo qua sotto una intervista a Enrico Berlinguer. Non credo che quelli
del PD sappiano chi sia stato Enrico ... visto che neanche il loro
segretario ne parla in questi giorni. Ma fu Berlinguer a porre per primo il
problema della questione morale.

Io penso che il lug imola possa e debba farsi luogo di riflessione anche
della valenza liberatoria del software libero rispetto alla modalità di
scambio che un certo sistema capitalistico impone. E penso che debba
guardare agli enti pubblici come a un luogo sacro e non una mangiatoia di
incarichi e favori. E dunque evitare inciuci e indebiti agganci con il
"palazzo".
Dall'altro lato coloro che impegnati in politica si dicono fautori del
software libero diano dimostrazione dell'impegno con cifre e fatti e
soprattutto RISPONDENDO alle istanze domande e proposte. Il silenzio non
giova a nulla. E DEVE essere ricordato quando in tempo di elezioni i
personaggi che a lungo tacquero poi diventano ciarlieri con piattino
dell'elemosina di voto in mano

antonino

Intervista a Enrico Berlinguer
 

«I partiti sono diventati macchine di potere»   

 

 «I partiti non fanno più politica», dice Enrico Berlinguer.

«I partiti hanno degenerato e questa è l'origine dei malanni d'Italia».

 

Eugenio Scalfari

*   *   *

La passione è finita?

Per noi comunisti la passione non è finita. Ma per gli altri? Non voglio dar
giudizi e mettere il piede in casa altrui, ma i fatti ci sono e sono sotto
gli occhi di tutti. I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e
di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi
della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi,
sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i
più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con
le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza
perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai
conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo,
formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l'iniziativa: sono
piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un "boss" e
dei "sotto-boss". La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di
luoghi. Per la DC: Bisaglia in Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in
Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad Avellino, Gaspari in Abruzzo,
Forlani nelle Marche e così via. Ma per i socialisti, più o meno, è lo
stesso e per i socialdemocratici peggio ancora...

 

Lei mi ha detto poco fa che la degenerazione dei partiti è il punto
essenziale della crisi italiana.

È quello che io penso.

 

Per quale motivo?

I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal
governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche,
le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università,
la Rai TV, alcuni grandi giornali. Per esempio, oggi c'è il pericolo che il
maggior quotidiano italiano, il Corriere della Sera, cada in mano di questo
o quel partito o di una sua corrente, ma noi impediremo che un grande organo
di stampa come il Corriere faccia una così brutta fine. Insomma, tutto è già
lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è
drammatico. Tutte le "operazioni" che le diverse istituzioni e i loro
attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in
funzione dell'interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve
la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se
procura vantaggi e rapporti di clientela; un'autorizzazione amministrativa
viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata,
un'attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto
di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta
soltanto di riconoscimenti dovuti.

 

Lei fa un quadro della realtà italiana da far accapponare la pelle.

E secondo lei non corrisponde alla situazione?

 

Debbo riconoscere, signor Segretario, che in gran parte è un quadro
realistico. Ma vorrei chiederle: se gli italiani sopportano questo stato di
cose è segno che lo accettano o che non se ne accorgono. Altrimenti voi
avreste conquistato la guida del paese da un pezzo.

La domanda è complessa. Mi consentirà di risponderle ordinatamente.
Anzitutto: molti italiani, secondo me, si accorgono benissimo del mercimonio
che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle
discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto
vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e
delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più.
Vuole una conferma di quanto dico? Confronti il voto che gli italiani hanno
dato in occasione dei referendum e quello delle normali elezioni politiche e
amministrative. Il voto ai referendum non comporta favori, non coinvolge
rapporti clientelari, non mette in gioco e non mobilita candidati e
interessi privati o di un gruppo o di parte. È un voto assolutamente libero
da questo genere di condizionamenti. Ebbene, sia nel '74 per il divorzio,
sia, ancor di più, nell'81 per l'aborto, gli italiani hanno fornito
l'immagine di un paese liberissimo e moderno, hanno dato un voto di
progresso. Al nord come al sud, nelle città come nelle campagne, nei
quartieri borghesi come in quelli operai e proletari. Nelle elezioni
politiche e amministrative il quadro cambia, anche a distanza di poche
settimane.

 

Veniamo all'altra mia domanda, se permette, signor Segretario: dovreste aver
vinto da un pezzo, se le cose stanno come lei descrive.

In un certo senso, al contrario, può apparire persino straordinario che un
partito come il nostro, che va così decisamente contro l'andazzo corrente,
conservi tanti consensi e persino li accresca. Ma io credo di sapere a che
cosa lei pensa: poiché noi dichiariamo di essere un partito "diverso" dagli
altri, lei pensa che gli italiani abbiano timore di questa diversità.

 

Sì, è così, penso proprio a questa vostra conclamata diversità. A volte ne
parlate come se foste dei marziani, oppure dei missionari in terra
d'infedeli: e la gente diffida. Vuole spiegarmi con chiarezza in che
consiste la vostra diversità? C'è da averne paura?

Qualcuno, sì, ha ragione di temerne, e lei capisce subito chi intendo. Per
una risposta chiara alla sua domanda, elencherò per punti molto semplici in
che consiste il nostro essere diversi, così spero non ci sarà più margine
all'equivoco. Dunque: primo, noi vogliamo che i partiti cessino di occupare
lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere
alla formazione della volontà politica della nazione; e ciò possono farlo
non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri
di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione,
organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente
l'operato delle istituzioni. Ecco la prima ragione della nostra diversità.
Le sembra che debba incutere tanta paura agli italiani?

 

Veniamo alla seconda diversità.

Noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si
annidi, che i poveri e gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi, e
gli vada data voce e possibilità concreta di contare nelle decisioni e di
cambiare le proprie condizioni, che certi bisogni sociali e umani oggi
ignorati vadano soddisfatti con priorità rispetto ad altri, che la
professionalità e il merito vadano premiati, che la partecipazione di ogni
cittadino e di ogni cittadina alla cosa pubblica debba essere assicurata.

 

Onorevole Berlinguer, queste cose le dicono tutti.

Già, ma nessuno dei partiti governativi le fa. Noi comunisti abbiamo
sessant'anni di storia alle spalle e abbiamo dimostrato di perseguirle e di
farle sul serio. In galera con gli operai ci siamo stati noi; sui monti con
i partigiani ci siamo stati noi; nelle borgate con i disoccupati ci siamo
stati noi; con le donne, con il proletariato emarginato, con i giovani ci
siamo stati noi; alla direzione di certi comuni, di certe regioni,
amministrate con onestà, ci siamo stati noi.

 

Non voi soltanto.

È vero, ma noi soprattutto. E passiamo al terzo punto di diversità. Noi
pensiamo che il tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico sia causa
di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi
sprechi di ricchezza. Non vogliamo seguire i modelli di socialismo che si
sono finora realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata pianificazione
dell'economia, pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione
essenziale, che l'iniziativa individuale sia insostituibile, che l'impresa
privata abbia un suo spazio e conservi un suo ruolo importante. Ma siamo
convinti che tutte queste realtà, dentro le forme capitalistiche -e
soprattutto, oggi, sotto la cappa di piombo del sistema imperniato sulla DC-
non funzionano più, e che quindi si possa e si debba discutere in qual modo
superare il capitalismo inteso come meccanismo, come sistema, giacché esso,
oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di emarginati, di
sfruttati. Sta qui, al fondo, la causa non solo dell'attuale crisi
economica, ma di fenomeni di barbarie, del diffondersi della droga, del
rifiuto del lavoro, della sfiducia, della noia, della disperazione. È un
delitto avere queste idee?

 

Non trovo grandi differenze rispetto a quanto può pensare un convinto
socialdemocratico europeo. Però a lei sembra un'offesa essere paragonato ad
un socialdemocratico.

Bè, una differenza sostanziale esiste. La socialdemocrazia (parlo di quella
seria, s'intende) si è sempre molto preoccupata degli operai, dei lavoratori
sindacalmente organizzati e poco o nulla degli emarginati, dei
sottoproletari, delle donne. Infatti, ora che si sono esauriti gli antichi
margini di uno sviluppo capitalistico che consentivano una politica
socialdemocratica, ora che i problemi che io prima ricordavo sono scoppiati
in tutto l'occidente capitalistico, vi sono segni di crisi anche nella
socialdemocrazia tedesca e nel laburismo inglese, proprio perché i partiti
socialdemocratici si trovano di fronte a realtà per essi finora ignote o da
essi ignorate.

 

Dunque, siete un partito socialista serio...

...nel senso che vogliamo costruire sul serio il socialismo...

 

Le dispiace, la preoccupa che il PSI lanci segnali verso strati borghesi
della società?

No, non mi preoccupa. Ceti medi, borghesia produttiva sono strati importanti
del paese e i loro interessi politici ed economici, quando sono legittimi,
devono essere adeguatamente difesi e rappresentati. Anche noi lo facciamo.
Se questi gruppi sociali trasferiscono una parte dei loro voti verso i
partiti laici e verso il PSI, abbandonando la tradizionale tutela
democristiana, non c'è che da esserne soddisfatti: ma a una condizione. La
condizione è che, con questi nuovi voti, il PSI e i partiti laici dimostrino
di saper fare una politica e di attuare un programma che davvero siano di
effettivo e profondo mutamento rispetto al passato e rispetto al presente.
Se invece si trattasse di un semplice trasferimento di clientele per
consolidare, sotto nuove etichette, i vecchi e attuali rapporti tra partiti
e Stato, partiti e governo, partiti e società, con i deleteri modi di
governare e di amministrare che ne conseguono, allora non vedo di che cosa
dovremmo dirci soddisfatti noi e il paese.

 

Secondo lei, quel mutamento di metodi e di politica c'è o no?

Francamente, no. Lei forse lo vede? La gente se ne accorge? Vada in giro per
la Sicilia, ad esempio: vedrà che in gran parte c'è stato un trasferimento
di clientele. Non voglio affermare che sempre e dovunque sia così. Ma
affermo che socialisti e socialdemocratici non hanno finora dato alcun segno
di voler iniziare quella riforma del rapporto tra partiti e istituzioni -che
poi non è altro che un corretto ripristino del dettato costituzionale- senza
la quale non può cominciare alcun rinnovamento e sanza la quale la questione
morale resterà del tutto insoluta.

 

Lei ha detto varie volte che la questione morale oggi è al centro della
questione italiana. Perché?

La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei
corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e
dell'amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna
metterli in galera. La questione morale, nell'Italia d'oggi, fa tutt'uno con
l'occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro
correnti, fa tutt'uno con la guerra per bande, fa tutt'uno con la concezione
della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno
semmplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione
morale è il centro del problema italiano. Ecco perché gli altri partiti
possono profare d'essere forze di serio rinnovamento soltanto se
aggrediscono in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche.
[...] Quel che deve interessare veramente è la sorte del paese. Se si
continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi,
non di allargarsi e svilupparsi; rischia di soffocare in una palude.

 

Signor Segretario, in tutto il mondo occidentale si è d'accordo sul fatto
che il nemico principale da battere in questo momento sia l'inflazione, e
difatti le politiche economiche di tutti i paesi industrializzati puntano a
realizzare quell'obiettivo. È anche lei del medesimo parere?

Risponderò nello stesso modo di Mitterand: il principale malanno delle
società occidentali è la disoccupazione. I due mali non vanno visti
separatamente. L'inflazione è -se vogliamo- l'altro rovescio della medaglia.
Bisogna impegnarsi a fondo contro l'una e contro l'altra. Guai a dissociare
questa battaglia, guai a pensare, per esempio, che pur di domare
l'inflazione si debba pagare il prezzo d'una recessione massiccia e d'una
disoccupazione, come già in larga misura sta avvenendo. Ci ritroveremmo
tutti in mezzo ad una catastrofe sociale di proporzioni impensabili.

 

Il PCI, agli inizi del 1977, lanciò la linea dell' "austerità". Non mi pare
che il suo appello sia stato accolto con favore dalla classe operaia, dai
lavoratori, dagli stessi militanti del partito...

Noi sostenemmo che il consumismo individuale esasperato produce non solo
dissipazione di ricchezza e storture produttive, ma anche insoddisfazione,
smarrimento, infelicità e che, comunque, la situazione economica dei paesi
industializzati -di fronte all'aggravamento del divario, al loro interno,
tra zone sviluppate e zone arretrate, e di fronte al risveglio e
all'avanzata dei popoli dei paesi ex-coloniali e della loro indipendenza-
non consentiva più di assicurare uno sviluppo economico e sociale
conservando la "civiltà dei consumi", con tutti i guasti, anche morali, che
sono intrinseci ad essa. La diffusione della droga, per esempio, tra i
giovani è uno dei segni più gravi di tutto ciò e nessuno se ne dà realmente
carico. Ma dicevamo dell'austerità. Fummo i soli a sottolineare la necessità
di combattere gli sprechi, accrescere il risparmio, contenere i consumi
privati superflui, rallentare la dinamica perversa della spesa pubblica,
formare nuove risorse e nuove fonti di lavoro. Dicemmo che anche i
lavoratori avrebbero dovuto contribuire per la loro parte a questo sforzo di
raddrizzamento dell'economia, ma che l'insieme dei sacrifici doveva essere
fatto applicando un principio di rigorosa equità e che avrebbe dovuto avere
come obiettivo quello di dare l'avvio ad un diverso tipo di sviluppo e a
diversi modi di vita (più parsimoniosi, ma anche più umani). Questo fu il
nostro modo di porre il problema dell'austerità e della contemporanea lotta
all'inflazione e alla recessione, cioè alla disoccupazione. Precisammo e
sviluppammo queste posizioni al nostro XV Congresso del marzo 1979: non
fummo ascoltati.

 

E il costo del lavoro? Le sembra un tema da dimenticare?

Il costo del lavoro va anch'esso affrontato e, nel complesso, contenuto,
operando soprattutto sul fronte dell'aumento della produttività. Voglio
dirle però con tutta franchezza che quando si chiedono sacrifici al paese e
si comincia con il chiederli -come al solito- ai lavoratori, mentre si ha
alle spalle una questione come la P2, è assai difficile ricevere ascolto ed
essere credibili. Quando si chiedono sacrifici alla gente che lavora ci
vuole un grande consenso, una grande credibilità politica e la capacità di
colpire esosi e intollerabili privilegi. Se questi elementi non ci sono,
l'operazione non può riuscire.

«La Repubblica», 28 luglio 1981



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