[LatinaLUG] europa e brevetti
bbartlebby
bbartlebby@yahoo.it
Mar 19 Lug 2005 16:38:28 CEST
Scusate se non sono intervenuto sul comunicato,
spero sia uscito.
Il testo per me andava bene, nella semplicità con cui
esprimeva l'idea di fondo,
considerando l'argomento che è tutt'altro che chiaro.
xchè ritengo che il comunicato per sua natura deve
essere breve e conciso,
per tenere alta l'attenzione,
e non è lo strumento migliore per spiegare l'idea che
regge l'opensource.
Sarebbe necessaria una giornata intera per spiegare,
come è nato e cosa è stato capace di costruire
quell'idea.
Vi mando tre articoli usciti a tal proposito,
spero siano interessanti.
Ciao
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Il furto d'impresa sul sapere comune
Conflitto aperto sulla proprietà intellettuale, tra
alterne fortune. Le corporations equiparano i prodotti
dell'ingegno ai beni fisici e non riconoscono che
l'«opera d'arte» - il «contenuto» che poi rivendono
più volte su supporti diversi - nasce in un ambiente
disseminato di idee altrui, non pagate
FRANCO CARLINI
Alterne e ambigue sono le notizie dal fronte della
proprietà intellettuale. Si succedono docce fredde e
docce calde per gli uni, i sostenitori di copyright e
brevetti, come per gli altri, i suoi avversari. Se la
Corte Suprema degli Stati Uniti ritiene colpevole di
violazione del copyright le aziende che offrono
servizi di scambio dei file in modalità P2P, negli
stessi giorni il parlamento europeo delude chi voleva
brevettare tutto il software. Un assurdo brevetto per
i kit diagnostici del tumore alla mammella viene
riattivato in Europa, ma il consiglio inglese delle
ricerche spinge per la massima circolazione delle
pubblicazioni scientifiche. Queste e altre decine di
notizie di segno opposto, tutte all'insegna dei
diritti di proprietà intellettuale (IPR), ci ricordano
che quella che stiamo vivendo è una fase di intensi
conflitti tra diversi valori (il sapere pubblico
contro il sapere privatizzato) e tra legittimi
interessi materiali che le tecnologie digitali hanno
posto in linea di collisione come mai prima: gli
artisti contro le case musicali, i produttori di
apparati elettronici contro i detentori dei contenuti,
i consumatori contro i rivenditori eccetera.
In questo scenario i più radicali ed estremisti non
sono gli hacker del software libero, ma le aziende
della musica, in Italia rappresentate dalla Fimi
(www.fimi.it) che negli ultimi mesi hanno abbandonato
ogni prudenza linguistica e hanno scelto la linea
dura: attivano loro task force alla scoperta dei
diffusori di musica in rete (che poi segnalano alla
Finanza), sono riuscite a far approvare emendamenti
peggiorativi alla linea di relativa depenalizzazione
su cui il parlamento di era impegnato a modifica del
pessimo decreto Urbani e hanno scelto la linea della
tolleranza zero.
Hanno imboccato insomma la strada, per loro stessi
deleteria, di trattare da ladri i loro stessi clienti
di musica e andranno ripagati con la stessa
aggressività linguistica che hanno deciso di praticare
per difendere allo spasimo la loro incapacità di
adattarsi al mondo che cambia. Con la Fimi in questa
fase ogni dialogo è decisamente precluso dal suo
unilateralismo.
Su questa campagna della Fimi aleggia peraltro un
vistoso fraintendimento: ufficialmente essa viene
condotta in nome del rispetto della legalità, ma di
fatto si tratta di ben altro, solo che si guardi la
questione con occhio scevro da pregiudizi. «Non
chiediamo niente di più che il rispetto del lavoro
creativo e del legittimo diritto a goderne», si dice.
Ma questa è solo la formulazione ufficiale, mentre
altra è la realtà.
La realtà è un massiccio processo di furto (se
preferite chiamiamola appropriazione) di conoscenze e
saperi comuni da altri creati. I «ladri» sono le
industrie del settore e questa operazione, per andare
a buon fine, richiede non già il ripristino della
legalità, ma al contrario la sua completa sovversione
e destrutturazione.
Fino a ieri i beni immateriali, le opere dell'ingegno,
hanno sempre goduto di una protezione limitata: lo
stato accordava ai creativi un monopolio temporaneo e
soggetto a molte limitazioni per incentivarli a
innovare, ma insieme li obbligava a mettere in
pubblico le idee e la loro espressione, a disposizione
della società intera e del suo progresso.
Questo oggi non va più bene a Hollywood, alle case
musicali e a molti artisti i quali oggi
pretenderebbero di rovesciare il diritto vigente fino
a rendere perenne quella che abusivamente affermano
essere proprietà loro. Per farlo propongono un salto
teorico vistoso, fatto di due affermazioni entrambe
discutibilissime. La prima è che la proprietà sia un
diritto naturale e non già un fatto storico, tema su
cui la filosofia politica si interroga da sempre senza
essere arrivata, com'è ovvio, a conclusioni univoche.
La seconda è che la proprietà intellettuale sarebbe
come quella dei beni fisici e che il possesso di una
musica è come quella di un campo di patate. Dunque
ogni compositore dovrebbe poter godere dei frutti del
proprio lavoro in ogni tempo e luogo e lasciarlo ai
suoi eredi proprio come il contadino deve poter
vendere a chi vuole le sue patate e affittare o
vendere il suo terreno a chi crede, lasciandolo poi a
figli e nipoti.
Ma c'è una vistosa differenza che solo la malafede
(anche di molti «artisti») può negare: ogni idea e
ogni sua espressione non nasce dalla scintilla
dell'intelligenza di un uomo solitario, ma è frutto
del sapere e della cultura prodotti da milioni di
altre persone delle generazioni precedenti e di quella
contemporanea. Come modestamente Newton ebbe a
riconoscere, ognuno si eleva «sulle spalle dei
giganti» che l'hanno preceduto. Di suo ci aggiunge
qualcosa, senza dubbio, ma il materiale e la cultura
di partenza su cui si accende una canzone o la forma
di una lampada sono in larghissima percentuale una
«emergenza» basata sul patrimonio comune e storico che
chiamiamo civiltà umane.
Persino le patate, del resto, non sono prodotto
esclusivo di quel contadino singolo: altri le hanno
portate in Europa dalle Americhe, altri le hanno
incrociate e migliorate, altri hanno scoperto come
coltivarle al meglio nei diversi terreni e lui stesso
ora gode giustamente dei frutti di una lunghissima e
diffusa conoscenza diffusa senza la quale mangeremmo
ancora radici selvatiche e amarissime, essendo rimasti
«cacciatori e raccoglitori», anziché allevatori e
agricoltori.
Dunque il movimento attuale è per alcuni aspetti
simile a quel processo di «enclosure» (recintamento)
dei terreni pubblici, pascoli e campi, che si sviluppò
in Inghilterra nel `600, attribuendo diritti di
proprietà a dei beni che fino ad allora erano stati
comuni. James Boyle, professore di legge alla Duke
university lo chiama appunto «The Second Enclosure
Movement» e il saggio relativo si trova all'indirizzo
www.law.duke.edu/pd/papers/boyle.pdf. Questo testo è
liberamente scaricabile e riusabile secondo la licenza
Creative Commons, che viene usata volontariamente da
molti autori per sottrarre le loro opere al copyright
classico, garantendone una diffusione ampia senza fini
di lucro.
La sua lettura è particolarmente utile, anche perché
ci ripropone alcuni brani preziosi di uno studioso
sociale troppo trascurato e il cui pensiero oggi
riemerge con prepotenza, Karl Polanyi, il quale per
esempio scriveva: «le enclosures sono state
correttamente definite una rivoluzione dei ricchi
contro i poveri. I lord e i nobili rovesciavano
l'ordine sociale, rompendo la legge e le usanze
precedenti talora per mezzo della violenza, spesso con
pressioni e intimidazioni. Essi letteralmente
derubavano i poveri delle loro quote di beni comuni».
Quando un artista va in Africa con una videocamera
catturando suoni, colori e forme di quei popoli e poi
torna a casa e remixandoli ne fa musiche da Sanremo,
tazze da the per i supermercati, T-shirt per i giovani
consumatori, borsette per via Monte Napoleone, quale
prezzo paga per quel «copia e incolla» di idee altrui?
E come può pretendere di avere un diritto secolare su
quei prodotti? E con che faccia tosta invocherà la
Guardia di finanza contro quegli africani che vendono
sulle spiagge delle imitazioni dei prodotti che lui a
copiato dalle loro terre e dalle loro genti?
Mai come nel caso delle idee risulta chiaro come
l'idea storica di proprietà si associ sempre a un
furto. E' un termine tecnico e dunque non si offendano
troppo Celentano né Gino Paoli: vuol dire soltanto che
tutti siamo debitori dei legami sociali e delle idee
di molti altri, anche quando non lo sappiamo e non li
conosciamo. Ma è giunta l'ora di saperlo.
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Il Sudamerica, intanto, libera il software
Brasile e Venezuela, alfieri della nuova cultura
dell'inclusione digitale e di un libero accesso alla
tecnologia
Un manipolo di hackers salva il colosso petrolifero
venezuelano e apre definitivamente al paese la strada
del free software
FIORELLO CORTIANA
Di ritorno dalla conferenza internazionale «Free
Software, Free Society» tenutasi in Kerala, India.
Dove risulta chiarissimo come il Brasile continui
deciso nella sua politica di software libero. Il «pc
conectado» (progetto di distribuzione di computer a
basso costo con software libero), la politica di
preferenza per il software libero nell'amministrazione
pubblica, i «pontos de cultura» promossi dal ministero
della Cultura (che prevede la distribuzione di kit
multimediali alle comunità selezionate per produrre
contenuti audio e video utilizzando software libero),
il progetto Gesac (per la distribuzione di antenne
satellitari alle comunità dell'Amazzonia) sono solo
alcuni elementi che dimostrano l'attenzione del
governo brasiliano per i temi dell'inclusione digitale
e dello sviluppo di una nuova cultura. Il ministro
della Cultura Brasiliano, il cantante Gilberto Gil è
forse l'alfiere più noto delle nuove idee che
circolano nel governo brasiliano. Ma il Venezuela è la
vera sorpresa: numerosissima la delegazione fatta di
rappresentanti del ministero dell'Economia Popolare,
da Pdvsa (la società petrolifera venezuelana che
fattura 46mila milioni di dollari, una delle più
importanti al mondo), Conatel (società di
telecomunicazioni), Sapi (la società per la proprietà
intellettuale venezuelana) ed esponenti della comunità
del software libero venezuelana. La storia di Pdvsa è
esemplare e forse spiega parecchio della convinta
scelta del governo venezuelano di sposare il software
libero.
Nel 2002 in Venezuela si svolsero due colpi di stato.
Il primo, in aprile, «convenzionale» secondo la
consolidata tradizione di questa antica pratica:
occupazione del palazzo presidenziale da parte
dell'esercito, arresto del Presidente, nomina di un
governo d'emergenza. Fallito il primo, nel dicembre
dello stesso anno avvenne un secondo colpo di stato
con caratteristiche nuove ed esemplari. In quel mese
si svolge lo sciopero dei dipendenti di Pdvsa che
mette in ginocchio in paese e rischia di far saltare
il governo. Uno sciopero particolare: il primo
organizzato direttamente dal management di Pdvsa. Il
petrolio venezuelano è stato nazionalizzato negli anni
`70. Pdvsa venne fondata incorporando in questa tutte
le società private che prima erano controllate dalle
diverse multinazionali. Il management di Pdvsa però
non era mai cambiato, anche dopo che il governo Chavez
si insediava in Venezuela. Pdvsa restava un'isola di
privilegi in Venezuela, ostile al governo Chavez. La
gestione di tutti i servizi informatici di Pdvsa era
affidata in outsorcing ad Intesa, una società
partecipata al 40% dalla stessa Pdvsa, ed al 60% da
Saic, una società legata al governo statunitense.
L'accordo tra Pdvsa ed Intesa stabiliva che Intesa non
sarebbe stata responsabile in caso di inefficienze
causate da uno sciopero e, in ogni caso, Pdvsa poteva
parlare ad Intesa solo per mezzo di dipendenti inclusi
in un elenco chiuso, tutti in sciopero nel dicembre
2002. Intesa non diede mai corso alla richiesta del
presidente di Pdvsa di consegnare i codici di
controllo del sistema informatico. Pdvsa era in
ginocchio. Non usciva una goccia di petrolio dai
depositi. La società fu salvata da un manipolo di
hackers che rimisero in piedi pezzo per pezzo il
software. Da allora Pdvsa e tutto il Venezuela hanno
una nuova consapevolezza: il controllo delle
tecnologie informatiche è strategico.
Con decreto presidenziale n. 3390 del 28 dicembre 2004
il Venezuela ha decisamente preso la strada del
software libero. In base a questo decreto tutti gli
enti del potere esecutivo dello stato venezuelano
devono attivare un processo di migrazione al software
libero con tempistiche stringenti.
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Roma - Il recente voto del parlamento Europeo, quasi
unanime, contro la Direttiva sulla brevettabilità del
software, è stato salutato da molti come un grande
successo del movimento antibrevetti e della comunità
open source. A dieci giorni abbondanti dal voto, senza
quindi sospetti su possibili influenza lobbistiche,
credo che sia utile riprendere una riflessione su un
evento che ha invece, a mio parere, implicazioni molto
complesse e probabilmente negative.
Come molti sanno, il centrosinistra europeo (PSE,
ADLE) aveva cercato di emendare la direttiva inserendo
norme che, pur garantendo in modo deciso il fatto che
il software, in sé e per sé, non potesse essere
brevettato, avrebbero permesso da un lato di sanare le
situazioni che l'EPO, l'Ufficio Brevetti Europeo, ha
attualmente aperte, dall'altro di avviare un processo
che, a partire dalla riforma dell'EPO stesso, avrebbe
potuto garantire all'industria europea di avere
standard omogenei di protezione e, soprattutto, di
poter ripensare il sistema della ricerca privata.
Ricerca che, come sappiamo, non vive delle rendite dei
brevetti quando questi sono ventennali, ma che
potrebbe essere assai più stimolata se i brevetti, ad
esempio, fossero impostati sulla Legge di Moore,
ovvero 18 mesi. Insomma, tutte idee sinceramente
riformiste che sono rimaste sulla carta e che hanno
trovato l'imprevisto ostacolo del "tanto peggio tanto
meglio".
La "lobby al contrario" ha funzionato meglio della
lobby tradizionale e molte aziende interessate alla
brevettabilità hanno preferito che non ci fosse
nessuna direttiva piuttosto che una direttiva
emendata. Il risultato è che oggi ci troviamo, come
ieri, senza regole omogenee, con un EPO che continuerà
a brevettare software come ha fatto sino ad oggi, e
con la falsa (e pericolosissima) sensazione, di aver
ottenuto una vittoria schiacciante.
Mi pare significativo che, europarlamentari con
pedigree di razza come Rocard, l'autore degli
emendamenti, abbiano avuto seri dubbi se votare contro
la direttiva; e Patrizia Toia, europarlamentare della
Margherita, ha preferito la via dell'astensione,
motivandola con il fatto che il lavoro svolto sino ad
allora sugli emendamenti sarebbe stato vanificato.
Cito testualmente: "Se mi sono astenuta sulla proposta
di rigetto è perché non ho voluto perdere linearità e
coerenza, non ho voluto confondermi con quella gran
parte del Parlamento che ha votato per il rigetto
completo perché erano coloro che pur di non vederla
modificata nel senso da tutti noi auspicato
preferivano il nulla e preferiscono l'attuale vuoto
legislativo. Io penso peraltro che il vuoto è uno
spazio nel quale i più forti se la cavano meglio e
certo i più forti non sono i sostenitori dell'Open
Source!".
Ora in questo contesto mi pare che sia veramente
difficile parlare di vittoria: non mi pare che il
ruolo dei monopolisti ne esca ridimensionato, non mi
pare che questo fatto darà alcun impulso all'industria
europea del software, non mi pare che vi siano le
condizioni per un balzo in avanti della ricerca, non
mi pare, infine, che l'open source, che credo sia la
prospettiva finale che tutti abbiamo a cuore, ne possa
trarre giovamento nel suo percorso verso un modello di
business alternativo. Ma, al di là di piangere sul
latte, versato o conservato, è importante rimettersi a
pensare. È veramente da auspicare che sia possibile
riprendere le fila di un discorso interrotto e
affrontarlo con quella coerenza e quella concretezza
che, a mio parere, in questa occasione non sono state
utilizzate fino in fondo.
Paolo Zocchi
Paolo Zocchi insegna Modelli e Strategie di
e-Government all'Università La Sapienza di Roma, è
presidente dell'Associazione UNARETE e coordinatore
dell'Osservatorio Nazionale ICT della Margherita
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