[LUG-Ischia] Mondo Open source

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Dom 3 Ott 2004 23:05:49 CEST


Mondo Open source 

Stefano Chiarini da Il Manifesto, 30.06.2004 11:44 

Dall'Europa all'estremo oriente il software libero si sta propagando in 
tutto il mondo. Un modello di produzione e distribuzione basato su concetti 
anti-economici, come la diffusione della conoscenza e la negazione dei 
diritti d'autore. E anche l'Economist si chiede: siamo al post-capitalismo? 
Il software libero ormai è usatissimo, e non solo sui poco diffusi server. 
Il «pinguino» Linux gira su milioni di personal computer, telefoni 
cellulari, console per videogiochi. Lo usano i governi perché costa meno e 
le aziende perché è più solido di Windows. Per Steve Ballmer (il grande capo 
di Microsoft) è «un cancro», ma molti imprenditori ormai ne sfruttano le 
possibilità.
Le ultime notizie del mondo Open source vengono dall'Europa e precisamente 
da due paesi che contano. A Monaco di Baviera tutti i partiti del consiglio 
comunale salvo l'Unione Cristiano Sociale hanno approvato il piano di 
passaggio dei 13 mila computer cittadini al sistema operativo Linux entro il 
2006. Nella fase intermedia resteranno ancora alcuni server Microsoft, ma 
nel 2008 tutte la applicazioni saranno «sotto Linux». 

Vecchio continente, software nuovo 

In Francia venerdì scorso il ministro della Funzione pubblica, Renaud 
Dutreil, ha annunciato l'intenzione d'introdurre i software aperti nei 
computer dell'amministrazione, per risparmiare nei costi. Ha anche precisato 
all'agenzia Reuters che «non stiamo iniziando una guerra contro Microsoft o 
contro le aziende americane nel settore», ma che «la Microsoft deve tornare 
a essere un fornitore tra gli altri. La competizione è aperta e la mia stima 
è che potremo dimezzare almeno della metà le spese di software». Le 
valutazioni del ministro si riferiscono soprattutto a un piano triennale di 
aggiornamento dei software per l'ufficio, per 300 milioni di euro. 

Decisioni analoghe sono state prese nei mesi scorsi da paesi come il 
Brasile, la Malesia e Israele, in forme e modalità diverse ma ispirate alla 
stessa filosofia di maggiore concorrenzialità e di risparmio. Nel frattempo 
il sistema operativo Linux che inizialmente sembrava confinato ai server (i 
potenti computer su cui s'impernia una rete informatica), si fa strada anche 
in altri apparati come telefoni cellulari e lettori di musica. Insomma il 
successo sembra inarrestabile. 

Il fenomeno dunque non è di nicchia e lo conferma il fatto che alla 
questione dell'Open source il settimanale The Economist abbia dedicato un 
editoriale, la settimana scorsa, con il titolo «Oltre il capitalismo?». Vale 
la pena di seguire il suo ragionamento, come al solito assai lucido, e di 
annotarlo. 

Al di là del capitalismo? 

Intanto i dati di fatto acquisiti: «È fuori discussione che l'Open source è 
un buon modo di fare il software», in contrapposizione al modo proprietario 
dove i codici sorgente originari sono gelosamente custoditi. Il secondo dato 
di fatto è che «esso produce software sicuro, affidabile e ovviamente 
economico». Il terzo elemento certo è che anche la sola presenza dei 
prodotti aperti ha comunque un effetto positivo di «maggiore trasparenza»; 
lo testimonia il fatto che pur mantenendo la sua ostilità ai sistemi aperti, 
la stessa Microsoft ha modificato le sue politiche e oggi permette a dei 
partner accreditati di accedere al suo codice, se non altro per ottimizzare 
le applicazioni che al di sopra di esso devono girare. 

Queste due affermazioni, abbastanza perentorie, ovviamente non piacciono ai 
produttori di software chiuso, i quali le hanno contestate con varie 
argomentazioni. Due fondamentalmente: la prima mette in dubbio l'economicità 
del software aperto e di Linux in particolare. Si sostiene infatti che il 
costo totale nel tempo (total cost of ownership) dell'adozione di Linux sia 
ben più elevato di quanto i suoi tifosi sostengono perché mentre si 
risparmia sulle licenze d'uso si deve spendere molto in gestione e 
manutenzione. 

La seconda obiezione a Linux e compagni è più radicale: esso distrugge 
ricchezza e rischia di mettere in crisi l'intera economia basata sui diritti 
di proprietà industriale e intellettuale. Quando il capo di Microsoft, Steve 
Ballmer, definì Linux «un cancro» l'espressione era certamente forte (e 
infatti, saggiamente è stata abbandonata), ma proprio questo voleva 
segnalare: la messa in discussione non solo ideologica, ma pratica di un 
modello economico. Una messa in discussione che avveniva in maniera 
contagiosa, propagandosi come un cancro da una cellula a un'altra. Se non un 
cancro quanto meno un'epidemia. 

Questo è appunto il tema che l'editoriale dell'Economist afferra per le 
corna: il modello Open «rappresenta un nuovo modello di produzione, 
post-capitalistico?». Può dunque essere esteso a altri settori industriali? 
Può essere l'Utopia che si realizza, trasformando o forsesovvertendo il 
capitalismo? 

Il capitalista «flessibile» 

La conclusione del settimanale, la cui fede liberista è totale, è al 
riguardo negativa: «Il modello Open source non rimpiazzerà il capitalismo» e 
tuttavia «la collaborazione tra larghi gruppi di persone che lavorano senza 
compenso per un fine comune, che la si chiami Open source o in qualsiasi 
altro modo, può essere una forza potente di bene, e dunque deve essere la 
benvenuta». 

Va detto che, allo stato delle cose e dei rapporti di produzione esistenti, 
quello dell'Economist è un atteggiamento realistico. Esso rappresenta 
l'aspetto più intelligente del capitalismo, la cui ragione principale di 
successo sta nella grande capacità di adattarsi ad ambienti che cambiano e a 
rapporti di forza mutevoli. Il capitalista puro non ha bisogno di rigide 
ideologie per fare il proprio mestiere; lascia che siano altri, gli 
apologeti, a rivestire di principi e di supposti valori il suo modo di 
produzione e queste ideologie servono a posteriori per legittimare quel 
modello agli occhi dell'opinione pubblica. Ma nella sostanza è pronto ad 
adattarsi a ogni nuova opportunità, anche a quelle che emergono dalle 
culture a lui antagoniste. Con due risultati: da un lato annacqua la carica 
antagonista di idee e movimenti, riconducendoli dentro il sistema, e 
dall'altro, nel caso per lui migliore, li trasforma in nuove occasioni di 
affari. 

Ritorno al futuro 

Esattamente questo sta succedendo nel mondo del software, basti riandare 
indietro negli anni, con un piccolo esercizio di memoria. Fino alla fine 
degli anni `70 il software era aperto e condiviso; esso veniva per lo più 
pensato e scritto dai suoi stessi utilizzatori, per esempio gli addetti alla 
ricerca, ed era considerato pura conoscenza strumentale, che come tale 
veniva diffusa e scambiata gratuitamente con i colleghi. Le aziende delle 
informatica facevano soldi soprattutto vendendo l'hardware e il software 
aveva al più la funzione di accessorio funzionale. L'hardware era invece 
tutto proprietario e di solito incompatibile tra i diversi produttori, con 
l'effetto di incatenare gli utilizzatori al singolo fornitore, magari il 
grande monopolista Ibm. 

Ma alla fine degli anni `70 dei giovani californiani realizzarono un sogno, 
quello del personal computer, e una scelta quasi casuale della Ibm ne fece 
un prodotto aperto, a differenza dei precedenti mainframe (i grandi 
computer). Quella fu una tipica «innovazione distruttiva» che metteva in 
crisi l'intera industria informatica, basata sui hardware proprietari, ma 
nello stesso tempo apriva il campo a un settore completamente nuovo. 
L'intelligenza di Bill Gates fu di capire che c'erano nuovi bisogni e 
consumi: software applicativi di massa, per il grande pubblico. Ma per farlo 
era necessario che il software cessare di essere a libera circolazione ma 
diventasse un prodotto industriale. Non per caso il movimento che prende il 
nome di Free software nacque al Massachusetts institute of technology (Mit) 
proprio in contrapposizione a questi processi di chiusura: Richard Stallman 
se ne andò polemicamente dal Mit indignato al vedere che persino il software 
delle stampanti non era più modificabile secondo le esigenze degli 
utilizzatori. 

Dunque non c'è niente di nuovo? Solo un ritorno all'idea del software 
condiviso dei tempi d'oro? Da un lato è così, ma i ritorni e i cicli non 
sono mai uguali a se stessi perché nel frattempo è arrivata una cosa che 
prima non c'era. Quella cosa si chiama Internet e fa una differenza 
fondamentale. Se prima i programmi venivano diffusi tra colleghi all'interno 
di piccole comunità di ricerca, ora la comunità è globale: centinaia di 
migliaia di persone tra di loro collegate grazie alla rete. Lo stesso 
sistema operativo Linux, che Linus Torvalds mise a punto nella sua versione 
primitiva nel 1991, crebbe e divenne robusto grazie alla possibilità di 
reclutare collaboratori entusiasti in tutto il mondo, ognuno dei quali 
produce righe di codice, collauda e verifica quelle altrui. E un processo di 
creazione e condivisione della conoscenza operativa che mette a frutto la 
diversità e persino la lontananza e che è radicalmente diverso dalla 
produzione industriale tipica della grande industria. 

Internet che fa la differenza 

La presenza dell'Internet è stata decisiva per la crescita dell'Open source 
non solo come strumento di lavoro a distanza, ma anche come ambiente 
culturale poiché in rete è normale scambiare conoscenza senza fini di lucro. 

Il recente dilagare dell'Open source ben al di fuori dei confini della 
comunità degli hacker alternativi ha provocato diverse reazioni nel mondo 
dell'industria: 

(1) Numerose nuove imprese sono sorte che fanno profitti offrendo dei 
servizi accessori agli utilizzatori del software aperto. Ovviamente 
trattandosi di software in uso gratuito i margini di guadagno sono molto 
inferiori, ma alcune di queste imprese, come Red Hat e Mandrake, hanno 
raggiunto dei ragionevoli equilibri economici. 

(2) Altre aziende hanno visto nel software aperto una poderosa arma 
concorrenziale contro la Microsoft. La più decisa a cavalcare Linux è stata 
la Ibm e anche questo è un bel paradosso: quello che era il più aggressivo 
monopolista oggi spinge un prodotto aperto, in questo caso associandolo al 
suo hardware e ai servizi di consulenza correlati. La decisione della Ibm di 
adottare Linux ha avuto un potente effetto simbolico verso le aziende 
clienti: se la Ibm lo consiglia, allora vuol dire che è una cosa seria e che 
ci si può fidare. 

(3) Le aziende di software che fino a ieri avevano lavorato su software 
proprietari sono state costrette a mettere in atto politiche di maggiore 
apertura. Certamente lo sta facendo la Microsoft, sempre sensibile a 
cogliere i segnali che le arrivano dal mercato: non solo alcuni codici di 
Windows ora sono disponibili, ma soprattutto scendono i prezzi dei suoi 
prodotti. Questa è la forza della concorrenza, che talora viene usata 
strumentalmente dai clienti per ottenere sconti: «Stiamo pensando di passare 
a Linux, ma se ci offrite delle condizioni migliori potremmo restare con 
voi». 

(4) I produttori di computer più importanti, come Dell e Hp ormai offrono 
normalmente dei Pc corredati dal sistema operativo Linux. Lo fanno per 
raccogliere le sollecitazioni della domanda, ma anche per non essere 
agganciati obbligatoriamente alla sola Microsoft, la quale oltre a tutto è 
stata vincolata dalle cause antitrust in America e in Europa a rilassare i 
suoi contratti di licenza, rendendendoli meno esclusivi. 

(5) Ormai il mondo del software non è più diviso in due: aperto contro 
chiuso. Esiste invece un'ampia gamma di soluzioni intermedie, come quelle 
che va praticando la Sun, altra storica casa di computer californiana. Le 
sue meravigliose stazioni di lavoro tradizionalmente usano un sistema 
operativo proprietario, chiamato Solaris. Per frenare l'emorragia la Sun ha 
appena annunciato che anche Solaris diventerà almeno un po' aperto, così 
come lo è il linguaggio Java che la stessa Sun inventò e che ormai è 
diffusissimo. Anche questa è una buona notizia e conferma che nel mondo 
dell'informatica gli scossoni continuano. 

 

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